Lavoro e disabilità, il commento di Cirillo dell’Andel

Riceviamo e pubblichiamo:

Nel corso dell’incontro della “Consulta su Disturbo mentale e Dipendenze”, abbiamo avuto modo di dibattere su alcune delle questioni che stanno alla base della sostanziale indifferenza, riscontrata tra le Istituzioni che sovrintendono all’inclusione lavorativa delle persone con disabilità di tipo mentale e psichiatrico. L’incontro si è tenuto a pochi giorni dall’approvazione del “Piano di Azione  Regionale 2022-2025” nell’ambito del quale, tra  le azioni, è previsto il sostegno all’abitare e al lavoro (purtroppo solo al ventesimo e ultimo posto tra le azioni ritenute prioritarie). In ogni caso è importante che, la Consulta abbia deciso di trattare la problematica del lavoro, come primo argomento che riguarda l’inclusione sociale, presentando delle proposte di lavoro utili a dare risposte concrete a quanti, pur vivendo una condizione di fragilità, non si rassegnano a rinunciare al loro “progetto di vita” attraverso il lavoro quale  percorso di cura socialmente inclusivo.  I pazienti psichiatrici, rispetto all’inclusione nel mondo del lavoro, sono sempre stati colpiti da un “doppio stigma”: da un lato, la loro imprevedibilità è stata genericamente vista come elemento conflittuale con ogni modello organizzativo di derivazione tayloristica; dall’altro, il disagio e la patologia psichica sono argomenti sconosciuti alla maggior parte di coloro che operano nel mondo produttivo e del mercato del lavoro.  La diffusa ignoranza anche solo sulle principali patologie psichiatriche porta con sé una barriera cognitiva verso le potenzialità e le abilità della persona che ne soffre. E infatti il pregiudizio di inabilità assoluta al lavoro si somma e si sovrappone al generale pregiudizio  di inguaribilità del disturbo psichiatrico. La condizione reale di malato psichiatrico nel mondo del lavoro risulta oggi, in primo luogo, sconosciuta. Le statistiche sull’inclusione lavorativa delle persone disabili, infatti, non ci offrono queste informazioni poiché esse versano in una condizione di ritardo nella raccolta 1dei dati dai vari centri di responsabilità, mancanza di uniformità e basso livello di dettaglio dei dati. In conclusione, oggi semplicemente neanche sappiamo quanti invalidi psichiatrici hanno trovato un lavoro, per quanto tempo lo hanno mantenuto, quanti sono impegnati in attività “para lavorative”, quanti sono in cerca di lavoro, ecc. E’ evidente come, su queste premesse, sia difficile anche l’impostazione di una qualunque “politica pubblica” nel settore in esame. I settori di intervento sono molti: Prima di tutto, è necessario intervenire al momento della valutazione della condizione di disabilità – sia di base che multifunzionale – ai sensi della legge 104/1992, secondo le nuove modalità oggi indicate dall’art. 2 della legge 22 dicembre 2021, n. 227, Delega al Governo in materia di disabilità e dai decreti attuativi della delega. La disabilità derivante da una patologia psichiatrica deve essere definita dalle commissioni di valutazione in termini scientificamente aggiornati e adeguatamente approfonditi nei profili funzionali specifici di ogni persona. In secondo luogo occorre intervenire efficacemente a livello delle norme giuridiche che disciplinano l’inserimento lavorativo delle persone disabili. L’art. 13, comma 1 bis, della legge 12 marzo 1999, n. 68 – nel definire una importante modalità di incentivo pubblico alla assunzione di persone con disabilità – ricorre ad una definizione priva di ogni fondatezza scientifica: quella di “lavoratore con disabilità intellettiva e psichica”. Un’altra norma presente nella stessa legge (l’art. 9, comma 4) ha poi disposto che “i disabili psichici vengono avviati su richiesta nominativa mediante le convenzioni di cui all’articolo 11” . Cioè secondo modalità diverse da quelle con le quali vengono assunti tutti gli altri disabili. E’ più che legittimo denunciare gli effetti discriminatori indiretti di tali norme e quindi la violazione dei principi di cui alla legge 1 marzo 2006, n. 67 e la possibilità di attivarne i relativi rimedi. In termini di prospettive, occorre invece partire da una serie di “buone pratiche” nate dal territorio – ancora non sufficientemente conosciute e diffuse – che hanno dimostrato che persone con disturbi anche gravi di salute mentale sono invece in grado di lavorare e come il lavoro possa contribuire ad accelerare il loro recupero.  Necessita, inoltre, determinare occasioni di confronto con le Istituzioni per presentare alcune buone pratiche maturate adatte a superare l’esclusione. Una buona pratica si è dimostrata quella delle “adozioni lavorative”   particolarmente idonea all’inserimento lavorativo delle persone con disabilità psichiatrica e che – d’accordo con gli organi regionali – potrà essere lanciata come buona pratica anche in Calabria attraverso il coinvolgimento della Cooperative di tipo B. Le coop sociali, possono avere affidate delle  commesse di lavoro in cambio della collocazione di soggetti che non possono accedere ad una occupazione regolare nel mondo del lavoro profit. Questo può avvenire attraverso lo strumento delle convenzioni previste dall’ art. 14 del D.lgs n. 276/03. La nuova legislazione quadro sulla disabilità (legge 227/2021), combinata con le raccomandazioni contenute nelle Linee Guida in materia di collocamento mirato devono rappresentare il terreno privilegiato su cui produrre un salto di qualità nella inclusione lavorativa delle persone affette da patologia psichiatrica ( le linee guida sono state approvate dalla Regione Calabria con D.dirigenziale n.3873 del 20.03.2023: a distanza di quasi due anni, purtroppo, non si registrano effetti positivi tangibili sul collocamento mirato delle persone disabili!)  Lo strumento che le norme internazionali ed europee ci mettono oggi a disposizione è quello degli “accomodamenti ragionevoli”: sono le misure adatte a rimuovere ostacoli ambientali, relazionali, operativi affinché il lavoratore possa operare senza restrizioni o barriere – adeguatamente incentivati – definiti dal legislatore nazionale come “modifiche e adattamenti necessari e appropriati che non impongano alla pubblica amministrazione, al concessionario di pubblici servizi, al soggetto privato un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, dei diritti civili e sociali”. E’ utile sottolineare che le condizioni per adeguare i posti di lavoro alle esigenze dei disabili debbono essere realizzate attraverso il “Fondo” specifico della disabilità-lavoro regionale che dovrebbe includere le risorse derivanti dalle sanzioni comminate alle imprese che si sottraggono all’assunzione obbligatorie. Su tale fondo, non si hanno informazioni  utili al suo ammontare, e conseguentemente a quali risorse la Regione Calabria destina alla promozione del Collocamento Mirato e all’inclusione lavorativa delle persone con disabilità. E’ evidente che le carenze informative riguardano i controlli sulle imprese e gli Enti  pubblici  che si sottraggono all’obbligo. La gestione carente del Collocamento mirato trova riscontro nella mancanza di ogni tipo di    accordo su scala territoriale tra i soggetti Pubblici, le Organizzazioni Datoriali e Sindacali, le Associazioni di rappresentanza della disabilità, in quanto cornice entro la quale promuovere la formazione di personale qualificato all’accompagnamento al lavoro. Varare l’adozione di “buone pratiche”, incentivare e codificare gli accomodamenti ragionevoli, favorire politiche di conciliazione vita-cura-lavoro delle persone con disabilità psichica (ad es. apponendo clausole collettive sulle modalità di lavoro in telelavoro o lavoro agile oppure dando priorità al part time), definire forme di sostegno al tirocinio e al canale di apprendistato, sono le azioni utili ad invertire la rassegnazione conseguente all’isolamento nelle proprie case, attraverso lo svolgimento di una attività lavorativa per centinaia (se non migliaia) di persone con disabilità. Altro tipo di problematica oggi penalizzate è dovuta al fatto che,  Tirocini, Borse Lavoro e contratti a tempo determinato,  in molti casi, risultano penalizzanti e non compatibili con le scarsissime misure di sostegno che si offrono ai disabili e che fanno perdere il misero assegno che ricevono  sotto forma di assistenza economica, si pone, pertanto,  il problema di riconsiderare lo stesso assegno di invalidità come una forma di aiuto al superamento delle difficoltà intrinseche alla condizione della persone disabile, non certo come reddito sostitutivo al salario.

Giovanni Cirillo 
Referente in Calabria di ANDEL (Agenzia Nazionale Disabilità e Lavoro)

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